Messina - Ci sono angeli che non possono avere dei nomi. Ricompongono la sofferenza ma devono restare anonimi. Per incontrali, previa autorizzazione prefettizia, bisogna prendere la strada del lungomare e poi svoltare a sinistra, prima di Paradiso. Sarà un caso? Imboccare la salita delle casette basse e, al bivio con l’Università di Messina, puntare su Conca d’oro.
È qui, che in un campo sportivo dedicato alla memoria di Primo Nebiolo, ritroverete la Lampedusa di un tempo e quelle persone semplici, appunto questi angeli, che con il loro lavoro e il loro offrirsi quotidiano, spesso ben oltre il tempo retribuito, fanno l’accoglienza, diciamo, “tecnica” e umana ai migranti raccolti in mare e portati nel Centro di accoglienza temporanea di Messina: una trentina di tende a punteggiare di blu un campo di baseball americano.
Da quando ha preso avvio la missione umanitaria Mare Nostrum, l’“impronta” della piccola isola delle Pelagie, conosciuta in tutto il mondo per essere stata per quasi trent’anni il primo vero approdo sulla strada dei migranti del Canale di Sicilia, è come se fosse stata riprodotta, per necessità logistiche e umanitarie, sull’isola madre. Tante piccole Lampeduse sparse in ogni provincia siciliana per fornire accoglienza e ospitalità in questa fase di forte ripresa degli arrivi dalle coste del nordafrica. E le navi della Marina militare italiana e della Capitaneria di porto pattugliano e setacciano questo mare di Sicilia a “pescare” naufraghi e raccogliere moribondi.
Il Centro accoglienza temporanea di Messina con 250 posti letto, ci viene detto, è stato aperto l’8 ottobre del 2013 e, prima con la Croce rossa italiana, ora con l’impegno dell’ente gestore costituito da “Senis Hospes”, “La cascina” e “Sol.co.”, ha, fino a ieri, già contabilizzato 3.597 presenze.
C’è più di mezzo mondo a scorrere la lista geografica dei Paesi di provenienza di questa gente che approda sulle coste sud di un Europa che sembra non voler vedere né sentire il lamento del canale di Sicilia.
«Gli arrivi nel centro avvengono a ondate. Quando arrivano tutti gli ospiti sono visitati da un medico per accertare eventuali malattie diffusive o infettive. Successivamente vengono riforniti di nuovi abiti, di prodotti per l’igiene personale e di una scheda telefonica per poter contattare i parenti. Quando li vediamo arrivare sono persone annientate non solo nel corpo. Eppure dopo poche ore che sono qui hanno già un’altro volto più disteso», ci racconta un angelo di Messina.
Qui sono passate tante storie segnate dalla guerra: «Ho avuto modo di conoscere fior di professionisti, soprattutto siriani, medici, professori universitari, e come per gli eritrei e i somali, con la volontà di chiedere asilo politico non in Italia, ma in nord Europa. Ricordo una donna siriana al quarto mese di gravidanza, sola, il marito ucciso dalla guerra, fuggita attraverso l’Egitto. Mi racconta questa storia: “Ho lasciato un figlio di 13 anni in Egitto, ho affrontato il mare per venire a partorire in Europa. Appena posso torno a prendere il mio ragazzo e poi rifarò la stessa strada per tornare qui”».
In questi giorni nel centro c’è un poco di calma, ci sono solo 19 ospiti, di cui 5 in ospedale. Sono nigeriani, musulmani e cristiani. Insieme, uniti dal destino identico di “fuggiaschi” da un mondo che non permette loro di vivere una vita normale.
Ma la sensazione, però, che qualcosa manca, emerge immediata quando si entra in uno di questi luoghi dove gli ospiti, è bene ricordarlo, hanno libertà di movimento, una volta registrati. E spesso fanno perdere le loro tracce prima della fatidica soglia delle impronte digitali per l’asilo politico in Italia, come prevede la Convenzione di Dublino.
È un’accoglienza finalizzata al bisogno immediato che offre determinate prestazioni, «senza un progetto per il dopo», senza che venga offerto un senso concreto a queste presenze. Un dopo che può durare anche un anno, il tempo di attesa, in genere, del riconoscimento di un permesso di soggiorno. Un tempo vuoto fatto di attese e lunghi silenzi su una panchina.
Se non fosse per la presenza di questi angeli senza nome che non guardano a orari o turni quando c’è da andare incontro a qualcuno: «Come posso tornare a casa e andare a dormire tranquillo quando magari ho accompagnato un nostro ospite in ospedale e so che lui è solo in un letto? Quando ho finito il mio turno è normale che vada a trovarlo per offrirgli un po’ di calore e due parole di compagnia».
Claudio Monici - Avvenire