C’era una volta un’altra Libia Notizie

C’era una volta un’altra Libia

  • Scritto da Redazione
  • - 23/07/2018

Sono seduto sulla mia sedia, con lo sguardo perso sui tetti di Tripoli, mentre la città affonda nell’oscurità. Non fosse stato per le poche luci sparse e il ruggito dei generatori che sembra provenire da ogni parte, avrei potuto pensare che la città fosse abbandonata e di essere l’ultimo abitante rimasto. Dopo qualche ora le orecchie cominciano ad abituarsi ai suoni e si smette di sentirli. Nell’oscurità tutto si fonde in un unico corpo finché non emerge un altro suono che interrompe la sinfonia dei generatori. È il suono di alcune pompe idrauliche che fischiano e annunciano l’inizio del pompaggio dell’acqua nelle cisterne poste sui tetti, il che vuol dire che l’elettricità è tornata.

Naturalmente la prima cosa che faccio è accendere il condizionatore. Poi torno al mio posto e comincio a leggere le email, pensando a tutte le volte che dovrò scusarmi per aver risposto in ritardo. È vero, chi è in contatto con me sa bene che dove vivo ogni cosa è dotata di una sua volontà: internet, l’elettricità, il pane, l’acqua, il carburante, tutto potrebbe improvvisamente sparire senza preavviso. Questa consapevolezza è tuttavia un’arma a doppio taglio, perché non rispondere potrebbe provocare ulteriori preoccupazioni. È noto infatti che la questione della sparizione improvvisa vale anche per le persone. Chiunque potrebbe sparire senza lasciare traccia.

Lupi, agnelli e cani da guardia
Anche se quando si tratta di sparizioni di persone possono esserci degli indizi, sarebbe opportuno attenersi a delle linee guida per ridurre le possibilità che accada. Innanzitutto meglio non essere ricchi e non guidare un’auto di lusso. Non è molto complicato seguire questi consigli. L’altro consiglio d’oro però lo abbiamo appreso da piccoli: anche allora le sparizioni improvvise erano un problema. Ricordo ancora una lezione nel libro di terza elementare.

C’era un agnellino a cui la madre diceva sempre di non lasciare il gregge e di non andarsene a pascolare da solo, perché il lupo l’avrebbe mangiato. Naturalmente lo stupido e ostinato agnellino sfidò le parole della madre, e naturalmente il grande lupo cattivo lo scovò a pascolare da solo. A quel punto l’agnellino implorò il lupo di lasciargli pronunciare le sue ultime parole. Il lupo acconsentì e l’agnellino cominciò a cantare: “La mia adorata madre ha detto all’agnellino ‘Figliolo… o figliolo non lasciare il gregge perché chi lascia il gregge è già perduto’”.

Dimenticano di dirci, però, che il pastore protegge il gregge solo per mangiarsi tutti alla fine, perciò la vera morale della favola forse dovrebbe essere: meglio essere un cane da guardia che un agnello. Oggi quelli che pascolano lontani dal gregge, in Libia, vivono ogni giorno nella paura di essere portati via dalle loro case o da un bar in pieno giorno, come è accaduto al giornalista e direttore del premio Septimius, Suleiman Qashout.

Il suo unico crimine è stato celebrare la bellezza e l’arte a Tripoli, una cosa che a loro modo di vedere “indebolisce i valori della società libica”. Il premio Septimius è un evento annuale creato da Qashout per celebrare i traguardi di artisti, attori e registi libici. Lo scorso aprile la Rada, la forza speciale di deterrenza, ha arrestato Suleiman e Mohamed el Yacoubi, suo amico e direttore esecutivo del premio. Diversi uomini a volto coperto li hanno prelevati da un bar al centro di Tripoli. Le ultime informazioni trapelate su Suleiman indicano che è stato torturato e costretto a registrare un video in cui confessa reati mai commessi. È ancora detenuto senza accuse e senza un processo.

Sì, in Libia il pastore non tollera che l’agnello si allontani dal gregge. Nel maggio scorso gli abitanti del quartiere di Ras Hassan a Tripoli hanno manifestato per chiedere alla milizia Bab Tajoura di andarsene. Sventolavano bandiere bianche per assicurare a tutti che quella era una manifestazione pacifica, eppure la milizia ha risposto aprendo il fuoco, uccidendo due uomini e arrestando Mohamed Abu Abeilah, fondatore del movimento Sawt al shaab (la voce del popolo) e uno degli organizzatori della manifestazione. Gira voce che sia stato rilasciato, ma non si trovano conferme.

Il tempo come un boomerang
Poiché in Libia le persone hanno ormai paura dei loro stessi pensieri, non ci rimane che aspettare con ansia il ritorno dell’elettricità e approfittarne il più possibile, per esempio per controllare le email.

Mentre leggevo la posta sono stato raggiunto da una lettera di Giancarlo Fieno. Quella lettera ci ha messo più di vent’anni per arrivare fino a me.

A metà degli anni novanta, Giancarlo lesse un articolo e si sentì in dovere di condividere il suo punto di vista sui suoi contenuti. Scrisse quello che aveva imparato e sentito durante la sua esperienza diretta in Libia.

Giancarlo era arrivato in Libia la prima volta negli anni quaranta, e ci aveva vissuto per diverso tempo svolgendo la professione di medico. Durante i suoi viaggi in Libia aveva conosciuto Uorda, una donna libica di cui si innamorò. Si sposarono nel 1946, ebbero sei figli e continuarono a vivere nel paese finché non furono costretti a lasciarlo nel 1970.

La sua lettera non è mai stata pubblicata. Dopo la sua morte, il figlio ne ha conservato una copia finché la nipote, Miriam Selima Fieno, l’ha trovata insieme ad altre lettere e a un libro che Giancarlo aveva scritto con una macchina da scrivere e che raccontava la sua storia. Queste scoperte sul nonno hanno ispirato Miriam Fieno e i suoi amici del collettivo teatrale La ballata dei Lenna a condividere quel viaggio in un progetto che hanno intitolato Libya, back home. Quando Miriam ha condiviso con me alcune di quelle lettere non ho potuto fare a meno di pensare che consideriamo sempre il tempo come un fiume che scorre verso un’unica direzione, come una freccia che una volta scoccata non può che andare avanti. Simili incontri con il passato però ti fanno pensare che a volte il tempo è come un boomerang: non importa con quanta forza lo scagli in avanti, alla fine tornerà indietro e se non fai attenzione potrebbe farti male.

Più cose scoprivo di Giancarlo, più mi rendevo conto delle difficoltà che aveva dovuto affrontare, gli stereotipi che aveva dovuto sfidare e le resistenze opposte da entrambi i mondi, quello di lui e quello di lei. Sopra ogni altra cosa, però, lui ha dovuto continuare a fare il suo dovere, di essere umano e di medico. Oggi lo staff di Medici senza frontiere lotta per svolgere il proprio lavoro, in una situazione molto simile e tuttavia diversa, in mezzo al divario tra due mondi.

La Libia è un argomento di conversazione a tavola, una dichiarazione sui social, una questione da discutere davanti a un buffet sorseggiando una bibita

La cosa affascinante è che gli occhi di un medico devono restare spalancati e concentrati sulle ferite, mentre tutti gli altri tendono a voltarsi dall’altra parte pieni di disgusto. I medici non possono distogliere lo sguardo, devono continuare a guardare in modo diretto, devono ascoltare con attenzione ciò che dice il paziente, qualsiasi informazione è di vitale importanza, un piccolo dettaglio potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte. Perciò non c’è da stupirsi se non riescono a voltarsi dall’altra parte e a fingere di non poter prestare ascolto a chi invoca disperatamente il loro aiuto, nonostante le sfide, i pregiudizi diffusi e il malcontento generale alimentato anche dai mezzi d’informazione.

L’esperienza in prima persona
Oggi nei mezzi d’informazione la parola Libia significa scontri vicino ai pozzi petroliferi, migranti e strategie per fermarli. Sono notizie piene di numeri, i numeri di chi è morto e di chi è sopravvissuto. La Libia è un argomento di conversazione a tavola, un evento, una dichiarazione sui social network, una questione da discutere davanti a un buffet sorseggiando una bibita. Quando qualcuno parla di Libia e dei migranti, lo fa riferendosi all’immagine che ha creato per l’altro, plasmata dai mezzi di informazione. L’altro è solo un ambiente fisico e non una realtà oggettiva, altrettanto viva.

È importante avere un punto di vista, uno sguardo distaccato dalla realtà e privo di qualsiasi esperienza personale, ma non basta. Affidandosi unicamente al giornalismo tradizionale, limitandosi a guardare da fuori attraverso una finestra limitata e calcolata, ci terremo sempre a distanza dall’altro. Dovremmo perseguire una narrazione diversa, un’esperienza in prima persona, per creare la consapevolezza che l’altro vive in società come le nostre, per riconoscerlo come essere umano e non solo come un volto triste che sta in piedi davanti a una banchina o che si imbarca per raggiungere l’altra sponda.

Trovo molto divertente quando qualcuno si scusa in anticipo di scrivere in prima persona. Mi ricorda la frase “Io – e se parlo in prima persona lo faccio sotto il controllo di Dio”, che è un modo comune di cominciare una frase per chi parla arabo, soprattutto tra studiosi e politici. La falsa umiltà di questa frase evidenzia l’esatto opposto. È come tante altre frasi o atteggiamenti che ripetiamo in modo automatico, senza renderci conto di quanto siano diventati insensati e inutili, come la quinta marcia ingranata quando sei bloccato nel traffico della superstrada di Tripoli il giovedì pomeriggio.

Ogni storia e ogni articolo ha un modo suo di svelarsi, e ogni persona ha non solo il diritto di esprimerlo, ma a volte il dovere di condividerlo, come aveva fatto Giancarlo Fieno.

Gentilissimo direttore
nei giorni scorsi è stato pubblicato su vari quotidiani il ‘suggerimento’ di monsignor Riva, esperto in dialogo con le altre religioni, dal titolo Non sposate i musulmani. Considerandomi un po’ parte in causa, sento il bisogno di esprimere il mio parere.
L’affrontare un argomento del genere richiede, oltre a una specifica competenza in materia, una profonda conoscenza dell’animo umano, nonché una sensibilità ed esperienza di vita che evidentemente non sono alla portata di tutti.
Io ho sposato una donna musulmana, avvenne quasi mezzo secolo fa, quando prestavo la mia attività di medico in Nordafrica e in un tempo in cui i nostri mondi erano più lontani e più divisi di quanto non lo siano oggi.
Si trattò di un matrimonio civile e da quel giorno ho sempre considerato quella meravigliosa donna araba come il dono più bello e più prezioso fattomi da Dio; ha riempito la mia vita di gioia e di calore. Fra noi regnarono costantemente un amore intenso, una meravigliosa armonia e la massima comprensione.
Sradicata dalla sua terra, a causa degli eventi, non cessò mai di immedesimarsi nella mia vita, come io sempre di immedesimarmi nella sua. Partecipando alle nostre festività forse con più slancio e calore di quanto ne provassi personalmente, come io, con pari sentimenti, partecipai alle sue.
Ora che sta percorrendo le vie del cielo, penso, con lacerante rimpianto, a tutto il bene che, per tanti anni, e pur appartenendo a religioni e mondi diversi, ci siamo dati l’un l’altra e al suggerimento di quel prelato e mi chiedo se Dio, quando creò l’uomo, avesse previsto che un giorno il gregge umano si sarebbe smembrato in tanti branchi solo perché il colore del loro mantello si è diversificato e si sono cibati su pascoli differenti, si scrutano con bieca diffidenza, solo perché pungolati da pastori inesperti e incauti, dimenticando che c’è un solo sole a dar luce e calore a tutti gli esseri viventi, come c’è una sola luna a illuminare il cammino al viandante, sia che egli percorra un cammino di campagna, o una pista desertica e che esiste un solo Dio che oggi deve osservare con stupore e sgomento l’abisso di meschinità in cui è sceso il cuore umano.
Ho sentito il bisogno di esprimere il mio punto di vista.
Giancarlo Fieno.

, regista

FONTE: INTERNAZIONALE